I pazzi convegni degli scapigliati

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Nella seconda metà dell’Ottocento qualcuno definiva il quartiere di Corso Monforte come una “Montmartre milanese”. Il paragone, forse un po' esagerato, rende bene il clima di fermento artistico che regnava nella Milano di quegli anni.

Alcuni scapigliati in una fotografia d'epoca; da sinistra Emilio Praga, Carlo Dossi, Luigi Conconi e un personaggio non identificato.All'indomani dell’Unità d’Italia, Milano si andava affermando come capitale del lavoro e delle opportunità. Artisti di tutte le regioni confluivano nella città lombarda in cerca di fortuna e molti trovarono nelle strade adiacenti a via Vivaio l'ambiente più consono alle loro ambizioni artistiche.
Il quartiere era molto diverso da oggi: le vie sonnecchiavano in mezzo a vasti giardini patrizi e a rigogliose ortaglie, e tutt’intorno si ergevano giganteschi ippocastani, filari di pioppi e salici ombrosi. Era un angolo della città che ricordava la campagna e che aveva fatto dire a Stendhal “a Milano si odora la felicità”.

Proprio qui, fra il 1860 e il 1880, fiorì la scapigliatura milanese, quel movimento artistico di rottura che si espresse nelle arti figurative e della letteratura. Gli scapigliati si contrapponevano al romanticismo sul piano artistico e agli ideali di vita borghese che si andavano affermando in quegli anni. Lo facevano a modo loro, con quadri, poesie e libri ma anche inseguendo uno stile di vita provocatoriamente fuori dagli schemi. Uno dei luoghi dove si concentrava il maggior fermento fu l'Ortaglia del Conte Cicogna, dove oggi sorge l'Istituto dei Ciechi di Milano.

Negli anni d'oro della scapigliatura qui capitava di incontrare i migliori ingegni del tempo: vi bazzicavano Emilio Praga e Giuseppe Rovani, lo scultore Giuseppe Grandi (che realizzerà il monumento delle Cinque Giornate) e il pittore Tranquillo Cremona. Qui ci veniva Daniele Ranzoni, quando la salute malferma e l'irrequietezza del suo spirito glielo permettevano e vi misero piede anche molti artisti di passaggio, come Giacomo Favretto, Guglielmo Ciardi e il pittore Luigi Nono.

Un'accolita di ingegni straordinari, concentrati in quel piccolo fazzoletto di campagna che resisteva nella crescita tumultuosa di Milano, ormai proiettata a divenire la capitale economica del Paese.
Cletto Arrighi (pseudonimo con cui si firmava Claudio Righetti) sull'Almanacco del Pungolo nel 1858 ci ha lasciato un'efficace descrizione dello spirito di ribellione che animava il gruppo.

Scapigliati all'osteria in un'incisione dell'800.“In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d'ambo i sessi - v'è chi direbbe: una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d'ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l'aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere […] meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile”.

Questa famiglia verrà definita da Arrighi “scapigliatura”, cercando così di rendere in italiano il termine francese bohéme (vita da zingari), con cui si etichettava la vita assolutamente anticonformista degli artisti parigini.

Anche a Milano gli artisti desideravano vivere da bohémien e questa velleità si concretizzava nella massiccia frequentazione di osterie e caffè. In questi luoghi gli scapigliati regnarono amati e detestati dai proprietari, trascorrendo ore e ore a scrivere, a disegnare o magari far niente, senza il rischio che i camerieri li disturbassero con un inopportuno “desidera signore?”.

Tutti prestavano fede alla massima del loro “capo” carismatico, Giuseppe Rovani: “i caffè e le osterie sono la casa di chi non ha casa”.

Di fatto erano palestre di gaiezza e scuole di estetica (tutt'altro che raffinate!), dove i commensali fra scherzi e arguzie coniavano modi di dire che facevano il giro della città.
Quando si ordinava una minestra, ad esempio, era abitudine raccomandarsi che fosse “ben calva”, riferendosi alla possibilità di trovarvi capelli! Più spesso il motto di spirito serviva a cavarsi d'impaccio quando i creditori battevano cassa.

La melodia" dello scapigliato Tranquillo Cremona.Giuseppe Rovani era celebre per riuscire a ingraziarsi in ogni occasione i suoi creditori. Un giorno, a chi gli chiedeva la restituzione di una somma, disse col suo fare gioviale: “Vede, l'è question d'ingranagg; anche a me ne devono; se si combina il momento in cui me li danno, con quello in cui lei me ne chiede, ella è soddisfatta; combinando un punto, tutti son a posto. L'è question, disi, d'ingranagg”. O ancora: “Io nacqui indebitato. Se la bolletta fosse un violino, mi sarissi on Paganini”. Per Rovani, come per i suoi compagni, il lavoro alla scrivania era insostenibile: aveva bisogno dell'aria aperta, del bicchiere colmo davanti agli occhi e della compagnia degli amici dalle teste arruffate. Allora la sua conversazione pigliava colore, le arguzie e le invettive uscivano spontanee.

La cattedra degli scapigliati erano i tavoli di caffè e osterie.

Prima di via Vivaio il luogo prediletto dagli scapigliati era l'Osteria del Polpetta, un “trattore antico” all'incrocio fra Corso Monforte e via Conservatorio, dove erano di casa Tranquillo Cremona, Giuseppe Grandi ed Emilio Praga. Un vecchio articolo di Primo Levi, apparso sul Corriere della Sera nel 1908, descrive questo indimenticabile luogo: “era un'osteria seria e dignitosa, severa quasi, con i suoi tavoloni di lucida rovere, i suoi duri panconi, i suoi frizzanti vinelli bianchi di Montevecchia e Monterobbio”. La polpetta milanese, piatto povero e di recupero per antonomasia, era così famosa fra gli scapigliati che il poeta e commediografo dialettale Ferdinando Fontana compose una poesia intitolata la “Polpetta del Re”.

Le cose cambiarono quando in via Vivaio vennero ad abitare due esuberanti portinai, i coniugi Prevosti. Subito gli artisti si impadronirono dei loro due robusti bambini per impiegarli come modelli e gli affidarono le pulizie degli studi. Un giorno il pittore Barbaglia buttò là una frase: “Perché non ci fate anche da mangiare?” e di lì a poco la portineria si trasformò in una mensa spensierata, che lasciò il Polpetta quasi senza clienti. Ma gli artisti, a quei tempi, erano attratti soprattutto dalla natura e dall’aria aperta e, con il permesso del "Sior Sicogna", presero a organizzare i banchetti nell’Ortaglia.

Ai primi di maggio la schiera festosa degli artisti si dava convegno in un angolo suggestivo dell'orto, dove al profumo di alberi meravigliosi erano stati allestiti le mense e un campo da bocce.

Pianta di Milano del 1865. Nel riquadro la zona dell'Ortaglia. © Civica raccolta di Stampe A. BertarelliRoberto Sacchetti, che ogni tanto si aggregava al cenacolo, ci dà una commossa descrizione di questi convegni.

“A due passi dalla Prefettura e a dieci da corso Vittorio Emanuele pareva d'essere in fondo a una campagna remota. Alcuni vecchi alberi bellissimi che forse una volta appartenevano al parco del palazzo vicino avevano, là dimenticati, disteso i loro rami da tutte le parti e per questo piacevano all'autore dei Paesaggi [Emilio Praga, nda] che trovava in quella libertà di fronde una certa somiglianza con la immaginosa abbondanza del suo stile. C'era a completare la scena campestre una rustica osteria, ma aveva un'usanza deplorevolmente urbana: faceva credito agli avventori e rincarava il conto ai morosi. In quell'ortaglia si fecero le più care festicciole ch'io abbia mai goduto."

Quell'angolo patriarcale ispirò a Filippo Carcano e a Giuseppe Barbaglia due tele squisite, che raffiguravano la vegetazione lussureggiante e i riflessi per il tremolar dei raggi del sole attraverso le fronde. Una tecnica pittorica, questa, che diverrà la cifra stilistica della pittura scapigliata e che Borgomainerio chiamava “pizzicotti della luce all'ombra”.

Per molti anni l'Ortaglia costituì la casa madre della scapigliatura milanese, che vi convenne sempre più numerosa in pazzi convegni, regolamentati da norme e statuti bizzarri: dovevano vigere la più ampia libertà e una perenne giovialità e, al contrario, essere messe al bando le cerimonie, la pedanteria, la politica e, talvolta, anche le discussioni sull'arte.

Marco Rolando

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