L’introduzione del Braille in Italia
Nel 1863 il codice di scrittura e lettura inventato da Louis Braille in Francia venne introdotto dall’Istituto dei Ciechi nelle attività didattiche rivolte agli allievi non vedenti. L’Istituto milanese fu quindi il primo introdurre in Italia questo metodo, grazie anche all’ingresso dell’allievo Antonio Ascenso proveniente da Marsiglia.
Gli altri istituti italiani per l'educazione dei ciechi, sorti posteriormente nelle varie regioni, si modellarono su quello di Milano, ammettendo l'alfabeto Braille senza discussione.
Leggere facendo scorrere le dita sui puntini in rilievo incisi sulla spessa carta è al tempo stesso emozionante e coinvolgente. Stiamo parlando della scoperta del codice Braille: il codice, costituito da soli sei punti attraverso il quale si possono scrivere le lettere dell’alfabeto, i numeri e le note musicali, ideato da Louise Braille nel lontano 1829.
Una vera e propria rivoluzione culturale che ha rappresentato una porta d’accesso al sapere in maniera diretta e autonoma per le persone non vedenti che ha permesso loro “di avere dignità, libertà, indipendenza e molte ore di piacere spirituale ed intellettuale"
Prima dell’introduzione di questo sistema di scrittura, i ciechi leggevano attraverso l’utilizzo di lettere dell’alfabeto in rilievo o disegnate coi puntini secondo l’adozione di diversi metodi provenienti da paesi europei; pur garantendo l’apprendimento, questi metodi avevano dei limiti: alcuni volumi arrivavano a pesare fino a otto chilogrammi, rendendo precaria la conservazione dei testi in rilievo e la lettura tattile risultava lenta. L’alfabeto latino inoltre era elaborato per la vista, non per il tatto e risultava difficoltoso distinguere con le dita, lettere per grafia simili tra loro, come la “B” e la “R” o la “Q” dalla “O”.
Per scrivere gli allievi adoperavano tavolette corredate da regoli al nero mediante cui potevano comunicare con il vedente oppure potevano usufruire di macchinette meccaniche rudimentali simili alla odierna macchina da scrivere, con cui però non avevano la possibilità di rileggere. Per la risoluzione di calcoli matematici si servivano di ulteriori strumenti come i cubaritmi e il cubalgebrico, mentre l’insegnamento della musica era soprattutto orale: i brani musicali venivano studiati a memoria da ogni allievo e ripetuti infinite volte.
Con certezza sappiamo che il fondatore dell’Istituto di Milano Michele Barozzi conobbe il metodo Braille nel 1842, ma non esitò a mostrare resistenze ad adottarlo per gli alunni perché ritenuto immorale, come si legge in un vecchio documento:
“Siccome non era compreso dai veggenti e imparato peraltro dai ciechi in modo veloce circa mezz’ora, si disse che il cieco ne avrebbe abusato per scrivere cose sconvenienti che i superiori non potevano controllare, né conoscere”.
Di questo metodo ci parla anche la patriota Bianca Milesi Mojon, conoscente di Barozzi, che negli anni quaranta ebbe un intenso contatto con l’istituto di Parigi, durante la sua permanenza nella capitale. La Milesi appare entusiasta del metodo Braille e sollecita nelle lettere più volte il fondatore Barozzi a prendere in seria considerazione l’uso dell’alfabeto.
Si deve perciò aspettare fino al 1863 quando un allievo Antonio Ascenso proveniente da Marsiglia approda all’Istituto di Milano. Ecco le sue parole:
“Devo premettere, che io avevo iniziato la mia istruzione nell'istituto dei ciechi di Marsiglia, nel quale si faceva uso esclusivamente del Braille. Quando per circostanze di famiglia dovetti trasferirmi in quello di Milano (verso la fine del 1863), trovai il direttore [Barozzi]decisamente contrario al metodo in parola. Egli perciò mi ingiunse di non portare nell'istituto né i libri né la mia tavoletta Braille; ingiunzione alla quale obbedii. Dopo alcuni mesi arriva da Parigi all'Istituto di Milano una lettera a caratteri Braille. Erano geroglifici. Ma [io fui pronto] alla decifrazione. La lettura, spontanea e corrente, bastò non solo a provare la bontà del sistema, ma suscitò entusiasmo. Tutti capirono immediatamente quale impulso poteva venire all'insegnamento dall'uso dell’alfabeto!”
Il buon seme era gettato se nel 1863 l’economo dell’Istituto Giovanni Figini, in una relazione alla direzione, ne proponeva l’adozione almeno per gli allievi delle classi più avanzate “in quanto offriva il vantaggio di poter leggere la propria scrittura, eseguire i compiti scolastici [e] i maestri ciechi [erano] posti in grado di correggere velocemente i compiti dei propri allievi”
Gli altri istituti italiani per l'educazione dei ciechi, sorti posteriormente nelle varie regioni, si modellarono su quello di Milano, ammettendo l'alfabeto Braille senza discussione. Il codice fu dichiarato ufficiale per tutti gli Stati dal Congresso Internazionale di Parigi nel 1878.
A due secoli dalla sua nascita il braille mantiene intatta la propria versatilità e universalità risultando, in una parola, attuale.
Enrica Panzeri